Gli alberi non sono “verde”, non sono “bosco”, non sono “natura”. Ogni albero è un personaggio della scena vitale del pianeta, con una sua biografia e una sua misteriosa capacità di conservare i nostri ricordi, pubblici e privati. Devo la mia ossessione per gli alberi a Cosimo Piovasco di Rondò, il piccolo Barone che una sera del 1767 a Ombrosa, una piccola città del ponente ligure, decise – a 12 anni – di abbandonare il suolo e di vivere sugli alberi il resto della sua vita. Il personaggio del romanzo di Italo Calvino, pubblicato nel 1957, è un punto fermo nell’immaginario della mia adolescenza; a lui devo la fascinazione per i boschi di ulivi e lecci che lambiscono le coste del Mediterraneo e il loro sottobosco di ginepro, mirto, elicriso. Al Barone di Ombrosa, nato a pochi chilometri da quella Badalucco che ospita le origini della mia famiglia paterna, devo forse anche il gusto per l’ostinazione nelle scelte radicali, irreversibili. Ma a ispirare la mia ossessione per gli alberi sono state anche altre memorie di vita, come le visite nel cantiere di una piccola casa progettata nel 1968 da mia madre Cini Boeri nel bosco di Osmate, presso il Lago Maggiore. Avevo 12 anni, come Cosimo, e ricordo la scelta allora controcorrente di costruire una casa che si radicava tra le betulle ma senza abbatterne nessuna. Una casa a zig zag, con insenature attorno ai tronchi e grandi finestre con vista sulle fronde.
Pochi anni dopo, nel 1972 – proprio nell’anno in cui Friedensreich Hundertwasser camminava con un albero nelle strade di Milano – un grande cantante e artista italiano, Adriano Celentano, scriveva una delle sue più belle canzoni sui rischi dell’inquinamento e della speculazione edilizia – “Un albero di 30 piani” – che si conclude con la visione di un albero che cresce per trenta piani in mezzo alla città 3. Con la sua semplicità, intuitiva e potente, Celentano aveva aperto l’immaginazione a una nuova architettura.