Nel 1898 Ebenezer Howard pubblicò A Peaceful Path to Real Reform, il testo germinale di un nuovo patto tra città e natura che fu riedito nel 1902 in una nuova versione con il titolo Garden Cities of To-Morrow.
La proposta di Howard per affrontare le diseguaglianze sociali, i problemi di inquinamento e traffico e i rischi igienici e di ordine pubblico prodotti dalla travolgente crescita urbana legata ai processi di industrializzazione era di progettare, attorno a Londra e alle grandi città inglesi, delle comunità urbane di 32.000 abitanti. Città a bassa densità, con al centro i servizi per la collettività e al loro intorno un sistema di corone di abitazioni immerse nel verde, in grado di combinare i vantaggi della vita urbana e quelli della campagna.
Le prime “Garden Cities” a guida e proprietà pubblica furono realizzate nel 1903 a Letchworth e nel 1920 a Welwyn e furono il modello ispiratore di una corrente importante dell’urbanistica e dell’architettura del Novecento: da Lewis Mumford a Clarence Stein, da Henry Wright a Clarence Perry, da Rexford Tugwell a Arthur Morgan. A un secolo di distanza, la proposta di creare nel mondo un sistema di “Foreste Urbane” composte da architetture che ospitano nel loro stesso corpo la natura, si confronta con uno scenario diverso. Quello di aree del pianeta dove l’urbanizzazione di grandi masse di contadini sarà per molti anni ancora un processo inarrestabile. Uno scenario che vede l’agricoltura – un’agricoltura polivalente e ricca di varietà, finalmente in grado di produrre cibo per i diversi gruppi sociali urbani – tornare a essere una risorsa fondamentale per le grandi aree metropolitane.
Uno scenario che impone una rigida riduzione del consumo di suolo naturale e agricolo prodotto dalla continua estensione orizzontale di aree urbane a bassa densità edilizia. E che rende sempre più difficile per i governi locali affrontare i costi sociali, economici e ambientali di gestione delle grandi metropoli.
In questo scenario, il progetto di piccole “città verticali” ad alta densità e intensità
di vita, che riducano i costi di gestione dei servizi energetici e di trasporto proponendo un nuovo equilibrio tra sfera urbana, sfera agricola e sfera naturale, può diventare un’opportunità importante.
Ma per unire la densità data da una crescita verticale degli edifici e la biodiversità data da un nuovo equilibrio tra natura e città, non basta un progetto urbanistico.
Le visioni che hanno generato i grandi processi di trasformazione del territorio hanno saputo unire una prospettiva urbanistica e su larga scala alla realizzazione di dispositivi architettonici individuali e puntuali, ripetuti nel territorio.
Così come la casa unifamiliare con giardino è stato un secolo fa il modulo elementare e declinato dello scenario delle Garden Cities di Ebenezer Howard, la torre alberata o “bosco verticale” potrebbe nei prossimi anni diventare il dispositivo che – ripetuto con infinite variazioni – ci consentirà non solo di innestare ecosistemi di biodiversità nella città costruita, ma anche di dar vita a una nuova forma di città: la Foresta Urbana. Città/Foresta dove l’architettura non cinge o presidia la natura, ma la accoglie come una sua componente originaria.