Quando ci interroghiamo su come saranno domani la nostra vita e le nostre relazioni, ci poniamo una domanda sullo spazio. Per Stefano Boeri l’architettura è una prospettiva sul mondo.
Nell’intervista a “Il Sole 24 ore” Stefano Boeri parla del lusso di ridisegnare l’orizzonte e attraversarlo.
«Tendo a pensare che l’architettura sia una prospettiva sul mondo e che, come una specie di fertile ossessione, sia il mio modo di guardarlo. Ho la percezione di aver fatto e continuare a fare, dal più al meno, sempre la stessa cosa, cioè provare ad anticipare il futuro e la sua ricaduta sulla configurazione degli spazi. Di volta in volta, questo si declina come un lavoro di progettazione, o di gestione di un’organizzazione complessa, o d’insegnamento, oppure di scrittura, ma in fondo non cambia: lo dico con grande sincerità, io faccio quello che sono capace di fare, da sempre, con continuità.
Due sono le sfide più importanti che ci attendono, fra di loro intrecciate: la questione ambientale e la redistribuzione. Spesso ci si dimentica che, in questo mondo urbano che cresce e che influisce sul cambiamento climatico (la produzione di CO2 nell’atmosfera proviene, per il 75 per cento, dalle città), aumenta la fascia di popolazione che vive in condizioni di disagio assoluto. Non parlo solo di quel 33 per cento di situazioni d’insediamento informale, cioè favelas, baraccopoli, slums, ma di caseggiati di edilizia popolare in stato avanzato di degrado. Il che riguarda città che conosciamo bene, come Roma, Torino, Milano, Napoli. Una politica che affronta con coraggio il cambiamento climatico diventa necessariamente una politica che propone uno sviluppo rigenerativo. Tenere i due aspetti separati, non sortisce alcun risultato. Faccio un solo esempio concreto. Ripeto spesso che in Italia dovremmo avere un ministero del legno e dei boschi. La loro estensione è cresciuta perché abbiamo abbandonato intere porzioni di agricoltura. A maggior ragione, dovremmo prenderci cura di questa formidabile risorsa, sia ambientale (i boschi assorbono l’anidride carbonica) sia economica (anziché importare legno per arredo ed edilizia, potremmo sfruttare quello locale, completare la nostra filiera produttiva).
Questa visione sistemica e quest’orizzonte temporale esteso discendono dall’esperienza architettonica. Le nostre opere durano molto più a lungo del periodo di vita in cui siamo a fianco ad esse.
Il tempo di progettazione e realizzazione è brevissimo rispetto alla loro permanenza. Questo impone un’etica della responsabilità e non semplicemente dell’azione, non possiamo limitarci a trovare la coerenza tra ciò che vogliamo e ciò che facciamo, tra le intenzioni e il prodotto, ma tra quello che facciamo oggi e quello che resterà domani. Il risultato del nostro lavoro, che è una configurazione spaziale con un suo peso, un colore, una dimensione, incide su tempi medio-lunghi e bisogna farsi carico di tutte le interazioni successive. Anche per questo, a volte, è meglio astenersi. L’architettura è una sovrascrittura. Decidere di cambiare uno spazio, specie se ha già di per sé una sua magia, un suo equilibrio, è delicato: occorre essere sicuri d’intervenire senza rovinare, aggiungere migliorando e, a volte, avere la forza di dire di no. Quello che s’impara col tempo è che tutti i limiti tecnici e oggettivi sono un grande spunto per la creatività e che
c’è un margine per cambiare e inventare, durante tutto il processo costruttivo, anche quando il cantiere è già aperto.
Il problema non sono i vincoli, casomai è la loro assenza, il foglio vuoto, la carta bianca.
L’Italia è piena di luoghi meravigliosi, che vanno ascoltati e preservati, non necessariamente modificati. Io amo moltissimo Genova, così intensa, malinconica e struggente insieme. Amo la Sardegna, il suo paesaggio ancestrale, con energie misteriose e straordinarie, l’interno ancor più delle coste. Milano è straordinaria, mi piace Napoli, persino Roma ha risorse formidabili, assolutamente intaccate, anche dalla peggior politica. Eppure la sua ricchezza, non solo archeologica e storica, ma l’orografia, i colli, i quartieri anni Trenta e Cinquanta, l’agricoltura, persino la zootecnia (dentro la città ci sono ancora i greggi), la rende una metropoli di una potenza ancora intatta. Basterebbe poco per ripartire.
Venendo poi al tema del lusso, per quel che riguarda la città e le case, si apre l’interrogativo del superfluo e dello spreco. Ciò che non è oggettivamente necessario può avere molta importanza, se produce valore simbolico. Penso alla storia del design italiano: c’è chi ha lavorato su essenzialità e funzionalità e chi ha dato vita a forme, utensili, pezzi che non rispondono semplicemente a una funzione, ma trasmettono una visione, un’idea, un pensiero sullo spazio. Un certo grado di spreco è sempre esistito e dev’essere tollerato. Pensiamo a livello domestico: le nostre case sono diventate a geometria variabile, continuano a cambiare per ragioni economiche, per l’allungarsi dell’età media, per i figli che escono e vanno all’estero a studiare, per i nonni che tornano… Lo stesso avviene nelle città: ci sono aree enormi abbandonate, che rappresentano, in prospettiva, un potenziale positivo. Se a Milano non avessimo gli scali merci vuoti, uno spreco di spazio, che dura da diversi anni, non potremmo avere un grande progetto di aumento delle superfici verdi. Un po’ di spreco è un bene perché regala una condizione di flessibilità. Quanto a me, il mio lusso sarebbe poter avere più tempo libero per seguire il calcio. Anche se mi rendo conto che lo guardo, ancora una volta, da architetto. È un sistema incredibile: un rettangolo che, a partire da poche regole precise, genera un’infinita varietà di possibilità, non solo spaziali e temporali, ma legate ai comportamenti, al clima, alle interazioni del pubblico. Appassionante!».